La manovra Monti

I timori, purtroppo, si sono rivelati ben fondati; anzi, addirittura, per difetto rispetto alla dura realtà. Pur condividendo la diagnosi (in vero, solo parzialmente), la terapia appare iniqua, sbagliata e, forse, anche deleteria. Ciò che non è riuscito a fare il governo precedente (dichiaratamente e orgogliosamente “di destra”), è stato facilmente in grado di disporre l’esecutivo “tecnico” del professor Monti. Sostenuto anche dal PD, pur con qualche sottile e inutile distinguo, in ossequio a un malinteso senso di responsabilità nazionale.

Si è scelto di imporre sacrifici dal basso: blocco della rivalutazione delle pensioni già da un livello infimo, elevazione (quasi per tutti) dei requisiti anagrafici per il trattamento di quiescenza, generalizzazione del sistema di calcolo “contributivo” (con grande gioia di chi ha perso il lavoro in età avanzata e non riesce a trovarne un altro e dei tanti giovani precari), reintroduzione delle tasse anche sulla prima casa, aumento indiscriminato delle accise sui carburanti e dell’IVA, possibilità di inasprire l’imposizione relativa alle addizionali sui redditi in favore degli enti locali. Non dall’alto: aumento delle aliquote sui redditi elevati e sulle ingenti transazioni finanziarie, intervento sui grandi patrimoni e sulle disponibilità di una certa consistenza, valido contrasto alle speculazioni, alla evasione e alla elusione fiscale, adeguata tassazione sugli immobili della chiesa cattolica (prevedendo non l’imposizione dei beni esclusivamente commerciali, ma l’esenzione di quelli esclusivamente di culto), seria gara per l’assegnazione delle frequenze televisive (da cui, secondo alcuni, si potrebbero incassare 16 miliardi di euro, oltre la metà della manovra). Per inciso, a proposito dell’IVA: non si comprende cosa vieti di intendere il precetto costituzionale relativo alla “progressività” del sistema tributario, in modo tale da comprendere anche i tributi indiretti, e quindi, per esempio, applicando l’aliquota IVA massima sull’acquisto di beni di fascia alta e altissima.

Anche quelle misure che apparentemente sembrano andare in questa direzione, a un più attento esame, si rivelano invece di diverso tenore o di scarsa efficacia. Basta fare dei calcoli elementari per rendersi conto che la nuova imposta municipale sugli immobili (IMU) è ispirata a criteri di regressività contributiva, non di progressività. I proprietari più abbienti di abitazioni, oltre alla prima nella quale risiedono, saranno sottoposti a una imposizione inferiore rispetto a quella prevista dalla vecchia ICI. Difatti, l’imposta municipale propria non si limita a sostituire l’Ici, ma ingloba anche la componente immobiliare dell’Irpef e delle addizionali regionale e comunale. Però, mentre Irpef e addizionali sono imposte progressive sul reddito, la nuova imposta si basa esclusivamente sull’aliquota stabilita dal Comune. Vi sono fondati dubbi di legittimità e di praticabilità dell’imposta straordinaria sui capitali “scudati” (al punto che, nella relazione tecnica che accompagna la manovra, si stima, prudenzialmente ma forse con eccessivo ottimismo, che il 20% potrebbe non essere incassata). L’ulteriore limitazione quantitativa all’uso del contante è solo una pia illusione e ricorda molto da vicino la legislazione emergenziale degli anni settanta, per cui si sperava di scoraggiare l’uso delle armi da parte della feroce criminalità organizzata (i cui esponenti di spicco meritavano già alcuni ergastoli), inasprendo la pena per chi non avesse avuto il porto d’armi……. Sembrano poi solo dei contentini simbolici l’aumento della tassa di possesso sulle auto di lusso e l’imposizione sui posti barca.

Niente di nuovo: è il programma naturale di un governo espressione dei ceti dominanti, della cosiddetta “destra liberale”, del modello di sviluppo “mercantile”. Già da oltre un secolo, qualcuno ha ritenuto che “se devi reperire dei soldi e sùbito, rivolgiti ai poveri; non hanno quasi nulla, ma sono tanti“. D’altra parte, non ci si poteva aspettare nulla di più, e di diverso, da eminenti cattedratici, banchieri e grands commis di Stato.

Si ricorda spesso la Grande Depressione del ’29, ma si tende a dimenticare la successiva lezione del 1937 impartita dall’Economia a tutto l’Occidente. L’America di F. D. Roosevelt stava faticosamente uscendo dal tunnel con le politiche del “new deal”; la ripresa iniziava a far sentire i suoi benefici effetti; finalmente, si riduceva l’esercito dei disperati e degli affamati. Il governo degli Stati Uniti ritenne che la crisi fosse ormai superata e, inopinatamente, decise un immediato e sostanzioso aumento dell’imposizione fiscale, accompagnato da una notevole contrazione della spesa pubblica. Risultato: l’economia ripiombò in una spirale recessiva ancor più grave e drammatica della precedente, che il Paese riuscì a superare solo anni dopo grazie alle ingenti spese statali sostenute per armamenti in séguito all’entrata in guerra. Come sostengono da anni alcuni autorevoli economisti senza essere ascoltati, aumento dell’imposizione fiscale e riduzione della spesa pubblica, a cui conseguono diminuzione della domanda interna e contrazione dei consumi privati, diseconomie di scala e aumento della disoccupazione, è la migliore ricetta per garantirsi una sicura e durevole recessione.

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