La logica del profitto

Gli avvenimenti economico-finanziari di questi ultimi giorni meritano una qualche riflessione, sia pur concisa e pacata.

Contrariamente a quanto ne pensano gli apologeti, il sistema capitalistico (o il “mercato”, come usano dire gli entusiasti) non conosce regole, neppure le vuole, è comunque incapace di darsele, non sarebbe capace di farle rispettare, è persino incapace di far osservare quelle poche norme di buona educazione che riesce solo a consigliare. Il mercato conosce e riconosce soltanto la “logica del profitto”, e nulla più. E’ compito delle comunità, locali, nazionali e sovranazionali, a mezzo dei rispettivi legittimi organi di rappresentanza democratica, porre e imporre regole valide ed efficaci per tutti; a maggior ragione, regole e norme per imprenditori, finanzieri, banchieri, assicuratori e “commercianti” in senso lato. Nell’interesse generale della collettività e del bene comune.

Non un ritorno al concetto di “economia pianificata” del vecchio socialismo reale, né a quello delle “partecipazioni statali” o industrie di Stato: lo Stato non deve produrre automobili, elettrodomestici o solventi chimici, ma deve produrre e far osservare le regole per la produzione e per il lavoro, per l’oculato utilizzo delle risorse disponibili, per il comercio e il trasferimento dei beni e per la preservazione dell’ambiente,a vantaggio di tutti e non per l’utile di pochi. Ma neanche la quasi completa e colpevole anarchia che esiste oggi in tutto il pianeta. Perchè non è possibile che pochi e potenti operatori finanziari riescano a mettere in ginocchio l’economia e la stabilità di intere nazioni; o che poche banche nazionali, con lo sciagurato strumento della finanza derivata, mettano a repentaglio la stessa sopravvivenza di non piccole comunità locali e dei loro enti territoriali, quanto meno la loro autonomia e indipendenza.


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In questo sciagurato Paese

In questo sciagurato Paese, bello e struggente, chiamato Italia, accadono cose sorprendenti e incredibili. Il governo e il parlamento, espressioni della più retriva e illiberale cultura di destra, hanno deciso di affossare definitivamente la giustizia, intesa sia come legittima aspirazione alla migliore tutela dei diritti dei cittadini, sia come struttura organizzativa statuale in grado di fornire risposte adeguate, tempestive ed efficaci; con, viene proprio da dire, la quasi totale disattenzione e il pressoché unanime disinteresse delle opposizioni.

Già si fa poco e male per migliorare l’efficienza della macchina giudiziaria; anzi, sembra che tutti gli interventi spingano nella direzione ostinata e contaria. La difesa legittima e costituzionalmente garantita dei diritti dei cittadini, inoltre, è di continuo ostacolata e resa sempre più difficile dalle tante insidie e dai troppi trabocchetti procedurali e di rito, che finiscono a volte per vanificare i diritti stessi nella loro concreta e sostanziale possibilità di esplicazione. Quando un ordinamento giuridico si mostra più attento alla forma che alla sostanza delle cose, il risultato è che, più o meno consapevolmente, mina alla radice il fondamento stesso dei diritti, a probabile svantaggio dei più e a sicuro vantaggio dei pochi, elitari, benestanti e potenti. Unica consolazione è rappresentata dai pronunciamenti di certa parte della giurisprudenza, sia di merito e sia di legittimità, la quale, sia pure con mezzi limitati e con incolpevoli lungaggini procedurali, riesce a fornire risposte degne della miglior possibile “giustizia sostanziale”.

Gli ultimi provvedimenti dell’esecutivo aggrediscono il fronte anche dal lato degli aggravamenti di carattere economico per usufruire del servizio giustizia. Da poco vi è stato un aumento generalizzato e considerevole degli importi per diritti di copia e conformità degli atti del processo; ora, con il decreto legge di qualche giorno fa, si opera sugli importi e sulla eliminazione delle esenzioni dal contributo unificato, una sorta di “tassa di accesso” alla giustizia. Il contributo unificato viene aumentato in media con percentuali che vanno dal 10% al 20%; non sono più esenti le controversie di lavoro e di pubblico impiego, se il reddito delle parti supera una certa soglia, né quelle di previdenza e assistenza, né quelle per la separazione personale dei coniugi e per il divorzio; nel processo amministrativo, il contributo per le controversie in materia di cittadinanza, residenza, soggiorno e ingresso nel territorio dello Stato, già piuttosto alto, viene ulteriormente aumentato. Il tutto, ovviamente, con grande gioia dei cittadini più deboli e meno abbienti, che, in tal modo, vedono ancor più accessibile e alla loro portata il mondo della tutela dei diritti; i cittadini stranieri, ancor meglio se extracomunitari, manifesteranno un sentito ringraziamento, magari nelle loro strane usanze tribali. A questo punto, si potrebbe obiettare che, almeno per i soggetti al di sotto di un determinato reddito, è previsto l’istituto del gratuito patrocinio a carico dello Stato: ottima e lodevole misura legislativa, di grande civiltà giuridica; purtroppo però, come quasi sempre, solo sulla carta. I fondi del relativo capitolo del bilancio dello Stato sono esegui e spesso si esauriscono nei primi mesi dell’anno di riferimento, i difensori delle parti prestano la loro opera professionale anticipando le spese e i compensi, la liquidazione in loro favore è notevolmente inferiore alla media della tariffa e (circostanza che, insieme con le altre, spesso allontana i più capaci e competenti) in molti casi viene concretamente corrisposta anche dopo anni dall’espletamento dell’attività.

Ancor di più e meglio è riuscito a fare l’esecutivo, sempre nell’ultimo decreto legge, nell’àmbito della giustizia tributaria, con la chiara ed evidente intenzione di renderla innocua, inoffensiva e irrilevante; segno di completa avversità e insofferenza al controllo di legalità sulle pretese dell’Erario, indipendentemente dalla loro legittimità e fondatezza, con il solo intento di “fare cassa” e sempre a scapito degli sprovveduti. In estrema sintesi e concisione: introduzione anche qui del contributo unificato per scaglioni di valore delle controversie; incompatibilità alle funzioni di giudice tributario per tutti gli iscritti agli albi professionali, elenchi e ruoli (i quali, attualmente, sono circa i 2/3 dei giudici in carica); incompatibilità alle funzioni anche per rapporti di parantela, affinità, coniugio e (strano che la chiesa non abbia fatto sentire la sua voce!) convivenza; decadenza automatica alla fine dell’anno in corso dei giudici attualmente in carica, che si trovassero in condizione di sopravvenuta incompatibilità; incrementare la presenza nelle Commissioni tributarie dei magistrati di carriera, in servizio (così sottraendo tempo prezioso alle loro ordinarie attività) o a riposo; mantenimento, però, degli attuali compensi irrisori dei giudici tributari; previsione del procedimento di reclamo, da attivare prima della proposizione del ricorso davanti alla Commissione tributaria a pena di inammissibilità. E’ evidente che l’attività della gran parte delle Commissioni tributarie sarà bloccata, quanto meno per un certo periodo, a tutto nocumento dei soggetti, cittadini e imprese, destinatari di atti di accertamento, avvisi di mora e cartelle esattoriali per pretese erariali e non. I quali soggetti saranno sempre di più in balìa della controparte pubblica, che può sempre usufruire della esecutività degli atti di accertamento, che possono essere sospesi dal giudice tributario (a questo punto, ammesso che si riesca a trovarne uno) solo per un periodo massimo di 180 giorni.

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La ragione ultima della giustizia

I ricchi e i potenti, ma pure quelli facoltosi e benestanti, in genere, dispongono anche di altri strumenti, più o meno leciti, per far valere il loro punto di vista. Al contrario, i meno fortunati, i più fragili e deboli, se ritengono di aver subìto un torto, (salvi casi particolari e non commendevoli) possono solo rivolgere le loro istanze di giustizia al sistema giudiziario statale. In uno Stato veramente democratico, ha grande importanza che sia garantita la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e che il processo sia accessibile a tutti, in condizione di parità ed eguaglianza, senza oneri eccessivi o impropri; a maggior ragione, ai cittadini meno abbienti e con disponibilità molto limitate.

E’ noto il caso del famoso mugnaio tedesco dei tempi andati, che, stanco di subire soprusi e angherie a opera del potente signorotto locale, poteva esclamare, forse con un po’ di timore, ma di certo con la consapevolezza e l’orgoglio del cittadino: ” Ci sarà pure un giudice a Berlino. “. E’ significativo, pur se meno noto, il caso del cittadino belga contemporaneo, il quale, subìti dei danni a causa dello sporgere dei rami degli alberi del fondo del vicino all’interno della sua proprietà, ha potuto chiedere e ottenere dal giudice competente una sentenza di condanna al risarcimento e alla eliminazione delle molestie; anche se il vicino in questione era il sovrano del Paese !!

In Italia, almeno sulla carta, il diritto di difesa è principio supremo dell’ordinamento giuridico, formalmente dichiarato, riconosciuto e tutelato dalla Carta costituzionale; in realtà, però, le cose non stanno esattamente così. In primo luogo, perché la macchina giudiziaria dello Stato (in ogni suo àmbito: civile, penale, amministrativo, tributario e contabile) funziona poco e male. Basta rileggere i discorsi di apertura degli ultimi venti anni giudiziari, da parte dei responsabili delle varie magistrature, per rilevare che il fenomeno è di antica data, univoco, costante, generalizzato e inarrestabile. In secondo luogo, perché si ha la netta e spiacevole sensazione che tutto ciò sia voluto, e ostinatamente voluto, più che frutto di sciatteria e poca competenza. Una macchina giudiziaria efficiente ed efficace (ossia, al massimo grado dell’efficienza) risulterebbe una vera calamità per il politico corrotto, per il potente di turno, arrogante e presuntuoso, per l’amministratore pubblico saccente e incompetente, per i tanti faccendieri e adulatori che circolano e agiscono impunemente: in poche parole, per buona parte dell’attuale classe dirigente. La vera grande riforma della giustizia, al di là e prima di ogni altra modificazione tecnica, sarebbe quella del “tempo”. Un’autentica rivoluzione: dare una precisa risposta di giustizia in tempi certi e ragionevoli, in condizioni di parità sostanziale tra tutti i cittadini, e senza limitazioni di accesso, tanto meno di carattere economico. Perchè una sentenza favorevole, dopo quindici anni o più, è sempre una sconfitta, per tutti, anche per il cittadino che ha visto riconosciute totalmente le proprie ragioni.

Certo, anche la magistratura ha le proprie responsabilità. I magistrati sono tanti e, nel loro consesso, come in tutti gli altri degli esseri umani, si annidano pure sfaccendati, corrotti, incompetenti e, addirittura, responsabili di gravi reati. Tuttavia, le componenti negative sono solo una infima minoranza, trascurabile dal punto di vista statistico, che non incide più di tanto sull’intero sistema; la gran parte dei magistrati è costituita da persone, in media, di buona competenza e capacità professionali, che cercano di fare il loro meglio all’interno di una struttura con tante lacune. Incidono molto di più sulla complessiva inefficienza del sistema, in realtà, una produzione legislativa sempre più astrusa e incomprensibile, foriera più di dubbi che di certezze, un’amministrazione pubblica altamente inefficiente e che genera un enorme contenzioso, la cronica scarsità di uomini e mezzi dell’apparato giudiziario, la illogica e non funzionale distribuzione sul territorio del personale giudicante, requirente e amministrativo, l’errato utilizzo delle poche risorse disponibili, comunque non in sintonia con il progresso degli strumenti tecnici di trattazione, lavorazione e archiviazione del lavoro e dei mezzi di comunicazione.

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Anche i signori d’altri tempi possono sbagliare

Per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l’ulteriore impegno dell’Italia in Libia rappresenterebbe il “naturale sviluppo” della scelta compiuta a metà marzo sulla base della risoluzione dell’ONU. L’intervento militare non contrasterebbe con l’articolo 11 della Costituzione, quello sul ripudio della guerra, che deve essere invece letto e correttamente interpretato nel suo insieme: partecipando alle operazioni contro la Libia sulla base della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, l’Italia non conduce una guerra né per offendere la dignità di altri popoli, né per risolvere controversie internazionali; l’Italia risponde a una richiesta delle Nazioni Unite.

L’articolo 11 della Costituzione recita testualmente: ” L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Una prima lettura del testo potrebbe confortare l’interpretazione del capo dello Stato: il ripudio della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e il consenso prestato “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” sembrerebbero posti sullo stesso piano, entrambi espressione di princìpi costituzionali da valutare nel loro insieme e da contemperare ed equilibrare adeguatamente.

Una diversa prospettiva, però, pone dei seri e fondati dubbi. L’articolo 11 non può essere letto in maniera avulsa dal contesto in cui si colloca, dedicato come è, primo per ordine e preminenza, ai “princìpi fondamentali” della Costituzione della Repubblica italiana. Quelli che, come ha più volte ribadito la Corte Costituzionale, costituiscono i “princìpi supremi” dell’ordinamento giuridico costituzionale. In essi sono compresi, fra gli altri, la “Repubblica democratica” e “la sovranità appartiene al popolo” (articolo 1), i “diritti inviolabili dell’uomo” (articolo 2), la “pari dignità sociale”, la “libertà” e la “eguaglianza” di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna (articolo 3). I princìpi supremi dell’ordinamento giuridico costituzionale sono espressione del potere “costituente”, originario e fondativo, e sono insuscettibili di modificazioni a opera del potere “costituito”, sia pure nella forma della revisione prevista dalla stessa Carta. Nel quadro costituzionale vigente non vi è possibilità alcuna di incidere su di essi; solo un nuovo potere “costituente” potrebbe farlo, ma fuori e a prescindere dall’attuale ordinamento.

Tra i princìpi supremi è da annoverare anche il “ripudio” della guerra, sia come strumento di offesa, sia come mezzo di risoluzione delle controversie. La stessa genesi della Carta non lascia àdito a dubbi: l’unica guerra “giusta”, legittima e ammissibile, è quella “difensiva”. Non c’è legge di revisione costituzionale che tenga, né direttiva europea, né risoluzione dell’ONU, né decisione della giurisdizione comunitaria. Così come nessuna fonte può consentire limitazioni alla libertà e alla eguaglianza dei cittadini, nessun organismo sovranazionale, di cui pure l’Italia faccia parte legittimamente e opportunamente, può imporre di rinunciare al ripudio della guerra “ingiusta”.


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Il signore d’altri tempi che abita al Quirinale

Per la Costituzione della Repubblica italiana: “Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune; può essere eletto …….. ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici; è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale; promulga le leggi ed emana i decreti aventi forza di legge e i regolamenti; ha il comando delle Forze Armate; presiede il Consiglio supremo di difesa; presiede il Consiglio superiore della magistratura; nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri.

L’Italia repubblicana ha avuto degli ottimi presidenti, e qualcuno in verità mediocre. L’attuale inquilino del Quirinale può tranquillamente essere annoverato fra i primi. Come tutti gli esponenti politici, anch’egli ha avuto naturalmente una storia personale “di parte”, quale militante in un grande partito della sinistra storica e parlamentare di lungo corso. Ma ha pure ricoperto importanti cariche istituzionali e di governo, nelle quali ha dato il meglio di sé per alto senso dello Stato e scrupolosa osservanza dei doveri connessi alla funzione svolta. Ancor di più, da quando è il capo dello Stato: attento alla forma, ma anche alla sostanza delle cose; autorevole rappresentante dei cittadini, ai quali, tutti, presta il dovuto ascolto; custode e garante
dei valori comuni e condivisi espressi dalla Costituzione; difensore delle prerogative degli organi costituzionali, in ossequio all’osservanza del principio democratico dei limiti e del corretto equilibrio tra i poteri dello Stato; rispettoso della sovranità popolare espressa dal Parlamento, ma da esercitare nelle forme e nei limiti della legge fondamentale; etica pubblica e comportamenti privati in piena e totale sintonia. Un vecchio signore dei tempi andati, il primo cittadino della Repubblica, esempio civico per le nuove generazioni. E’ stato bello per i cittadini di questo Paese vederlo, ieri, a Torino, nella seconda giornata di festeggiamenti per il 150° dell’unità d’Italia, sinceramente e irrefrenabilmente commosso nel ricordare a tutti l’attaccamento alla cosa pubblica e i doveri a cui sono tenuti i rappresentanti delle istituzioni.

Le stesse considerazioni, ahinoi, non possono essere fatte per buona parte dei politici italiani, di qualsiasi appartenenza; nemmeno di alcuni fra quelli che attualmente esercitano importanti funzioni pubbliche ai vertici dello Stato. E’ questa la ragione vera e profonda per cui qualcuno di essi, che pur nutre tale aspirazione, sembra del tutto inappropriato per assurgere alla più alta Magistratura della Repubblica.


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Le grandi sfide dell’umanità

L’uomo contemporaneo è costretto a misurarsi con alcuni grandi problemi che incombono sul suo cammino. Non sono certamente i soli, ma quasi tutti gli altri si possono ricondurre a essi, direttamente o indirettamente. Non sono neanche nuovi; anzi, qualcuno è noto già da secoli. Tutti sono però ineludibili e non più rinviabili: dalla loro soluzione, quanto meno dall’affrontarli con serietà e raziocinio, dipende forse il destino stesso del genere umano.

Il primo problema riguarda il rapporto tra l’equilibrio del pianeta e il modello di sviluppo dominante, capitalista o mercatile, che dir si voglia. In altre parole, attiene a ciò che viene comunemente definito come “sviluppo sostenibile”, attento cioè alle necessità “compatibili” con le risorse a disposizione. Come aveva già intuito alcuni decenni or sono un intellettuale italiano di grande spessore (e, forse anche per questo, quasi del tutto sconosciuto e comunque dimenticato in patria) “sviluppo” non implica necessariamente “progresso”. Sviluppo è anche progresso solo quando, e se, tiene conto della dignità umana e della salvaguardia dell’ambiente; solo, e se, mira a elevare l’essere umano, tutti gli esseri umani, in sintonia con la preservazione dell’ecosistema che li ospita. In caso contrario, è solo miopia politica, una condizione patologica che non consente di guardare oltre l’esiguo presente; e, soprattutto, non permette di far prevalere l’interesse di tutti (pure di quelli che non ne sono nemmeno consapevoli) sull’egoismo di pochi. La trattazione particolare di ogni possibile implicazione va ben oltre l’intento di questa noterella. Ci si limita a indicarne qualcuna, fra le più evidenti: lo sfruttamento incondizionato, e a volte scriteriato, delle risorse naturali, immense sì, ma pur sempre limitate e non facilmente riproducibili; l’alterazione continua, costante e progressiva dell’ecosistema, con danni probabilmente irreversibili; l’uso disinvolto di tecnologie, non solo militari, in grado di distruggere il pianeta ben prima della sua fine naturale; un modello di sviluppo che ha come unico indicatore economico l’incessante produzione di beni e servizi e che ritiene rilevante solo il consumo; il tenore di vita eccessivamente alto dei paesi del cd. primo mondo, in confronto alla arretratezza economica e sociale della restante gran parte dell’umanità; la scarsa consapevolezza del fatto che (per il noto principio dei vasi comunicanti, valido anche in economia) è proprio il primo che determina essenzialmente la seconda; la legittima aspirazione dei paesi emergenti a migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini, che però si scontra inevitabilmente con il rifiuto dei cittadini dei paesi ccdd. evoluti di fare delle rinunce; infine, ma non da ultimo, la grande massa di diseredati e di disperati che spinge ai confini del mondo del (presunto) benessere, per rivendicarne almeno qualche briciola.

Il secondo grande problema, che affligge l’umanità da secoli, è quello relativo alla corretta interazione che deve sussistere (o non sussistere) tra scienza e fede. L’origine aulica della questione non deve trarre in inganno, come se riguardasse soltanto teologi e scienziati o filosofi, perché essa incide nella banalità della vita quotidiana di tutti noi più di quanto si possa ritenere. E’ interessante notare che buona parte degli esseri umani usano correntemente il computer, l’ascensore o il telefonino e, giustamente, si rivolgono al medico per complesse e sofisticate indagini diagnostiche, in caso di necessità; e poi, non senza una certa contraddizione, invocano la divinità o il santo patrono per guarire da un male (allo stato) incurabile, o per una vincita alla lotteria nazionale. In verità, scienza e fede operano su piani diversi, su livelli incommensurabili e inconciliabili fra di loro; piani e livelli che non hanno alcun punto in comune e che non si intersecano mai. Anzi, per meglio dire, si ignorano gli uni con gli altri. Ed è proprio quando si pretende (o, peggio, si assume) che tale “ignoranza” venga meno, che iniziano i guai seri. L’una è la fisica, l’altra è la metafisica; l’una la razionalità, l’altra la irrazionalità; il naturale e il soprannaturale; la prima si conquista, la seconda si riceve in dono. Contrariamente a ciò che pensano in tanti, la scienza non fornisce soluzioni definitive ai problemi che le vengono posti. Non dà, e non può dare per definizione, risposte certe: essa si limita (e non è davvero poco) a indagare un fenomeno fisico, e quindi reale, e a indicare la migliore soluzione possibile, qui e ora, senza alcuna pretesa di completezza o di assolutezza. Scientifico non vuol dire certo o sicuro, né, tanto meno, immutabile e valido per sempre; scientifico è il metodo, rigorosamente razionale e logico, documentato e ripetibile. Una teoria è scientifica non in quanto intrinsecamente “vera”, ma perché, allo stato delle attuali conoscenze, “non falsificabile”, ossia non sostituibile con un’altra più aderente alla realtà fattuale e in grado di spiegare meglio il fenomeno indagato. La fede stimola l’emotività e i sentimenti, pretende delle “verità” e non si accontenta di teorie approssimative, per quanto scientifiche. Essa poggia sulla consapevole finitezza della condizione umana, sul bisogno che ha l’uomo di essere rassicurato, a volte pure a prescindere dalla bontà delle argomentazioni. E’ molto ingenuo, oltre che fuorviante, usare gli strumenti scientifici per tentare di avallare i postulati della fede; in alcuni casi, è addirittura una deliberata impostura. Bisogna mantenere sempre ferma la distinzione e non confondere mai. Con rispetto e con stima per chi ha una fede autentica e poi anche, però, dei comportamenti conseguenti nella propria vita e nel quotidiano rapporto con gli altri.

Il terzo problema di grande rilevanza può essere anche considerato diretta emanazione del secondo: il rapporto tra religioni e democrazia. Una delle conquiste fondamentali della civiltà occidentale (in certi casi, purtroppo, solo apparente) è la netta separazione tra Stato e Chiesa, fra ordinamento civile e istituzioni religiose, il diritto e la morale, il reato e il peccato. Sembrerebbe ovvio, invece è un traguardo raggiunto in tempi relativamente recenti e solo da una parte dell’umanità, forse neanche maggioritaria. A tutt’oggi, nella civilissima Inghilterra, il sovrano è anche il capo della chiesa anglicana; fortunatamente, senza altre conseguenze. In Italia, nonostante la salvezza delle forme, l’influenza delle gerarchie vaticane è ancora molto presente. Lo Stato è formalmente laico, ma, purtroppo, molte decisioni politiche di interesse generale risentono della dominante dottrina cattolica, un po’ per convenienza e un po’ per insipiente sudditanza psicologica. Basti considerare il finanziamento della scuola privata a danno di quella pubblica, il beneplacito dei vescovi per la nomina degli insegnanti statali di religione, le problematiche della regolazione delle nascite e della fecondazione assistita, il riconoscimento delle famiglie e delle unioni non tradizionali, le agevolazioni fiscali per gli istituti e le opere di religione, etc. etc. Nel mondo islamico, poi, la situazione è ancora più complessa e foriera di gravi conseguenze: vi sono tuttora monarchie per diritto divino e l’aspirazione al califfato non è mai del tutto sopita. In alcuni paesi, le alte cariche dello Stato sono attribuite dall’autorità religiosa, spesso dietro il paravento di elezioni farsa. Il diritto penale è confuso con l’etica delle sacre scritture, al punto tale da generare delle vere e proprie aberrazioni giuridiche. La democrazia non è compatibile con la religione, con tutte le religioni. In democrazia non esiste, non può esistere una verità assoluta e “rivelata”, imposta dall’alto, non esistono dogmi, non può riconoscersi una morale religiosa predominante, che pretenda di farsi Stato o di condizionarlo pesantemente. La pre-condizione di un sistema veramente democratico non è tanto la libertà “di” religione, bensì la libertà “dalla” religione, intesa come libertà di credere o non credere, e solo dopo poter scegliere quale fede avere. Ma sempre e comunque nell’ambito della propria sfera privata, anche e soprattutto quando si ricoprono cariche pubbliche e si svolgono funzioni nell’interesse collettivo. L’autorità religiosa influenza soltanto le decisioni personali del credente, la sua coscienza, libero di aderire o meno a una comunità. L’autorità civile rappresenta tutti i cittadini, credenti e non credenti, qualsiasi fede essi professino, nei limiti delle regole della pacifica e civile convivenza. Il fondamento della democrazia è rappresentato dal consenso della maggioranza dei cittadini, non dalla adesione della maggioranza dei credenti. Uno Stato “confessionale” è l’antitesi della democrazia; uno Stato democratico non può che essere profondamente e sostanzialmente “laico”.

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Per progredire

La nozione di democrazia sembra di facile e immediata comprensione. Per i più significa governo del popolo, con le sue ovvie implicazioni: si vota, la maggioranza vince e impone le proprie idee, la minoranza deve sottostare e adeguarsi, nella speranza che la prossima volta vada meglio. Un sistema semplice, intuitivo, con poche ed efficaci regole. In realtà, le cose non stanno esattamente così; o, almeno, non bastano solo tali concetti elementari. Contrariamente a quanto ritenuto da molti, in democrazia non si parte dal voto, ma a esso si arriva.

In primo luogo la democrazia, per essere veramente tale, presuppone  (nel senso che devono preesistere, quanto meno coesistere)  dei cittadini: persone che, liberamente e consapevolmente, possano determinare le scelte di politica generale della società in piena autonomia e con cognizione di causa. Libertà e consapevolezza sono requisiti indispensabili per affermarsi cittadino: chi non è, o non si sente libero, non può dichiarare le proprie idee e confrontarsi con gli altri in piena dignità; chi non è informato non può fare una scelta oculata. Non sono delle banalità. Siamo (o sembriamo) tutti formalmente liberi; siamo (o sembriamo) tutti capaci di decidere. C’è però da chiedersi seriamente: è veramente libero il giovane disoccupato? E’ veramente libera una persona che si ritrova, magari a una certa età, con una famiglia da mantenere e un lavoro precario? E’ davvero libera una persona che, per ottenere ciò che è un suo diritto, è costretta a farsi raccomandare da qualcuno più influente? E ancora: può dirsi libero e capace di scegliere il cittadino medio di fronte a un grande quesito di strategia energetica nazionale?

In democrazia, tutti i cittadini hanno pari dignità e possono  (anzi, devono) concorrere, in condizioni di eguaglianza, alla determinazione della politica nazionale. Tutti devono avere la concreta possibilità di affermare le proprie convinzioni, nel quadro di valori comuni e condivisi, e con il pieno e totale rispetto delle convinzioni altrui. All’interno di quei valori e con il rispetto per l’altro, tutte le opinioni possono essere sostenute. Di tal ché nessuno, a priori, può essere escluso dall’amministrazione della cosa pubblica; nessuno, a priori, può essere escluso dalla possibilità di determinare le scelte significative della collettività. A condizione ovviamente che tutti, non solo e non tanto dal punto di vista strettamente formale, siano elevati alla condizione di eguaglianza sostanziale con tutti gli altri. Eguaglianza sostanziale che non significa livellamento della società, ma garanzia di eguali condizioni di partenza per tutti, a parità di merito e con eventuali lacune dei singoli colmate dalla (e nell’interesse stesso della) società.

Un sistema democratico deve consentire  (anzi, forse, deve anche favorire)  l’alternanza delle diverse, e opposte, forze politiche al governo della cosa pubblica. Alternanza anch’essa sostanziale, non solo formale: concreta possibilità del governo della società, all’interno di un ben determinato quadro istituzionale di riferimento, nell’interesse della collettività.

In democrazia non esistono persone insostituibili. Certo, ci sono soggetti più o meno capaci e competenti; ma, ciò che conta veramente è che il sistema possa funzionare bene, anche a prescindere dall’attuale manovratore. Inoltre, non esiste, non può esistere, una “classe politica”, cioè un insieme di persone che si occupano stabilmente della cosa pubblica. Qualunque cittadino deve essere in grado di attendere al funzionamento dell’apparato pubblico e deve, pertanto, ritenersi solo  “prestato”  alla politica per un tempo definito, trascorso il quale, ritorna alle proprie personali occupazioni e lascia ad altri cittadini il compito di amministrare e gestire nell’interesse di tutti.

La democrazia non tollera, per definizione, i poteri assoluti. Nessun rappresentante della cosa pubblica, neanche se ottenuto il massimo consenso popolare, può ritenersi libero da controlli e da contrappesi; né, ancor meno, sottratto all’osservanza delle regole fondamentali della società. L’osservanza delle regole, i controlli autonomi e indipendenti e l’equilibrio fra i pubblici poteri rappresentano l’essenza stessa di una società democratica.

Infine, democrazia non vuol dire dittatura della maggioranza; anzi, il suo reale significato va proprio in senso opposto. Un sistema è democratico allorquando appresta una adeguata tutela della minoranza, di tutte le minoranze e, in genere, di chiunque non si identifichi appieno nelle scelte dominanti. Un sistema che riconosca e garantisca i diritti di tutti i cittadini, i diritti dei singoli, anche e soprattutto nei confronti della società nel suo complesso,  oltre che verso ognuno dei consociati.

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Per proseguire

Innanzitutto, una doverosa precisazione. Il titolo del blog è costituito da due parole di senso comune, nella loro accezione normalmente conosciuta e  (come vedremo, almeno all’apparenza) quasi scontata. Due parole addirittura a volte abusate e, comunque, patrimonio del linguaggio  (quasi)  di tutti. Le stesse parole però, seppure invertite nella loro posizione, identificano anche una prestigiosa rivista specializzata, di grande spessore culturale, che pubblica i migliori contributi da parte di eminenti studiosi italiani e stranieri, nel campo delle scienze giuridiche, di “politica” del diritto, di filosofia del diritto e, in genere, delle discipline  che si occupano della “organizzazione” della società. E’ solo una coincidenza dovuta all’uso degli stessi termini,  dei quali ovviamente nessuno può sentirsi unico depositario; e niente altro. Tutt’al più, una citazione colta.

Il blog non intende rivolgersi agli esperti (che lo troverebbero forse banale): non ha velleità di rigore scientifico, nè, ancor meno, pretesa di completezza ed esaustività;  ma restano sempre graditi i consigli e i suggerimenti di tutti. Non vuole rivolgersi agli operatori del diritto, anche se, probabilmente, potrebbero anche trovarvi spunti interessanti per il loro agire quotidiano. Non vuole nemmeno essere uno strumento di pedante e noiosa didattica: i testi su cui apprendere sono ben altri e di diverso e molto più elevato livello. Infine, non vuole rappresentare un modo per fare “pratica” del diritto, una sorta di  esercitazione “sul campo” per studenti e apprendisti; i quali, per tale loro necessità, farebbero meglio a guardare verso sedi più appropriate e competenti.

Molto più modestamente e con grande umiltà, il blog vorrebbe solo “informare”; e già questa idea non appare per nulla di semplice realizzazione. Vorrebbe fornire al cittadino gli strumenti critici per interpretare la realtà che lo circonda, partendo dai fatti noti  (e, se non noti, renderli tali)   e cercando di capire le complesse dinamiche che possono averli determinati. Fornire al cittadino, che così si può definire solo se libero e consapevole, le cognizioni indispensabili, ma necessarie, per interagire con i fenomeni sociali di cui è, nello stesso tempo, protagonista e destinatario per tutte le loro possibili implicazioni. Con una particolare inclinazione per i fenomeni che attengono alla organizzazione della società, ai rapporti fra i consociati e alla loro pacifica e civile convivenza: in altre parole, per le norme giuridiche, per quelle “regole del diritto” che governano i rapporti sociali, sempre e comunque, direttamente o indirettamente, in maniera chiara o, a volte, oscura. Informare per capire, capire per essere informati; avere una visione delle cose, senza alcun timore di averne una personale, e quindi giocoforza  “di parte”, purché documentata, motivata, seria e sostenibile, ancorché sempre aperta al confronto e al miglioramento.

Certo, il compito di informare è assolto  (o dovrebbe essere assolto)   in via principale dai grandi media nazionali; ma, sul punto specifico, vi sono evidenti lacune. Le questioni strettamente giuridiche vengono relegate sulle riviste specialistiche, per addetti ai lavori, poco note e poco accessibili al grande pubblico. I più diffusi quotidiani e periodici trattano spesso argomenti con “implicazioni giuridiche”, però talvolta con una certa superficialità, talaltra presupponendo, e quindi omettendo, concetti basilari per la loro comprensione, in certi casi fornendo interpretazioni non corrette o addirittura errate. La televisione non dispone del linguaggio adatto  (almeno nella gran parte dei programmi) per la trattazione appropriata di tali argomenti: i titoli gridati e i confronti basati più sul tono e sul volume della voce che sulla bontà delle argomentazioni, sicuramente, non giovano alla bisogna.

Non resta che augurare buona sorte al blog per la difficile impresa.

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Per iniziare

Il diritto può essere definito come il sistema delle regole che governano una società, al fine di risolvere (ancora meglio, di prevenire) i conflitti tra i consociati. Il sistema è (o almeno, dovrebbe essere) tendenzialmente chiuso e completo : al suo interno si dovrebbe pervenire alla soluzione di qualunque contrasto possa insorgere. Appartiene alla funzione giurisdizionale l’interpretazione e la corretta applicazione delle norme giuridiche.

D’altro canto, però, il diritto non può essere considerato  “neutro”; esso è pur sempre il prodotto dell’uomo e del suo tempo. Sarebbe davvero ingenuo ritenere che le regole del diritto siano espressione di valori assoluti e universali, valide sempre e in ogni luogo, come se fossero emanazione di una autorità superiore e indiscussa. Sotto tale profilo, il diritto non è altro che l’insieme delle regole che sono stabilite dai rapporti di forza esistenti nella società e dal loro continuo misurarsi per ottenere la supremazia gli uni sugli altri. In termini semplici, una sovrastruttura formale che, con il crisma della legittimità, determina quali soggetti e quali interessi siano, allo stato, più o meno meritevoli di tutela.

E’ compito del giurista lo studio e la conoscenza del diritto positivo, ossia delle regole vigenti in un determinato momento e per una ben individuata società umana. E’ compito del filosofo del diritto domandarsi il perché una specifica norma esista e quale potrebbe essere quella migliore da adottare nel caso concreto: non in ossequio ad astratti, e alquanto opinabili, princìpi etici, ma in base all’equo contemperamento degli interessi, di tutti gli interessi, meritevoli di essere salvaguardati in una società liberale e democratica.

E’ compito dei pubblici poteri favorire la conoscibilità delle regole del diritto,  garantirne la scupolosa osservanza a tutti i livelli e apprestare gli opportuni rimedi nel caso della loro violazione. Infine è compito di ogni cittadino, tale solo se libero e consapevole, dotarsi degli strumenti minimi  (quanto meno, sapere dove reperirli)  per esercitare i propri diritti di cittadinanza in piena autonomia e con la dignità dell’essere umano.

Per ora, forse, bastano queste poche note per riflettere. Alla prossima.

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